sabato 13 dicembre 2008

Accendi un sogno per Maurizio

Maurizio Mosca ne ha combinata un'altra delle sue. Non contento dello scoop che ha fatto riguardo al concerto dei Faint di due settimane fa, ha deciso di ritirarsi per qualche ora di solitudine nello sgabuzzino dove vive sito in Largo Corsia dei Servi 3 a Milano ed, armato solo di una Olivetti Lettera 32, una Peroni gelata, un pentolone di pasta e fagioli ed un paio di albi Squalo d'epoca, ha vergato con prosa elegante ma decisa la prima recensione socio-musicale della sua prestigiosa carriera di giornalista-gonzo.
In pratica, ha deciso di abbruttirsi ed ha recensito Zucchero Filato Nero di Mauro Repetto, il capolavoro definitivo dell'indie italiano. Roba da piangere di gioia, che qui di seguito riportiamo affinché non vada perso nemmeno un briciolo dell'urgenza della scrittura del Maestro Mosca.



Il culto invisibile. Il vuoto a perdere. La meteora bionda. I’m a loser baby so why don’t you kill me. Il mio regno per una vagina. Mr. pussy power. Lacrime di coccodrillo e occhi bagnati di luce. Sparizione annunciazione. L’accensione. Il corpo fuori. Più hardcore di Alberto Camerini. Astro lucente della perdita di sé. Autismo situazionismo. Più fottuto di testa e “out there” di Juri Camisasca, più trash di Totò Cutugno. Un enigma tra Bugo e Pupo. Il Beck italiano, con un cuore pulsante al posto della robotica (il Kurt Cobain italiano, con il baratro al posto della bara). Il ridicolo come segno di incontrovertibile superiorità. Un uomo libero. Il vero, unico simbolo generazionale partorito dall’Italia dei ‘90, pronto a sacrificarsi in nome degli ‘80 per gli anni Zero. Uno che ovunque sia adesso, di sicuro sta alla grande. E’ il 1992 quando con l’album “Hanno ucciso l’uomo ragno” esplode la macchina 883. Teenage Rock con grooves, una comunicatività Pop violentemente diretta e testi che centrano l’immaginario medio della post-adolescenza italiana, tra diaristica metropolitana spicciola, sogni televisivi e una corposa innocenza piccolo borghese. Dalle onde di una sempre più ascendente Radio Deejay la voce di Max Pezzali, tagliente e grave, arriva al cuore di una nazione: è successo istantaneo. La televisione il passo successivo. E’ lì che il duo irrompe nella sua spiazzante flagranza. Il moro Pezzali canta con una schiettezza timida e una faciloneria di ragazzo adulto che conquista. Intorno a lui piroetta uno che apparentemente sembra il perfetto contraltare vacuo alla sua solidità, Mauro Repetto: l’altro, quello biondo con i capelli lunghi, coautore dei pezzi e sporadicamente seconda voce, uno come ne incontri tanti sulle Golf di quei primi ‘90 e che balla come deve ballare un figlio dei primi ‘90, con uno stile un po’ ravey che però è mixato a memorie della grande dance televisiva anni ‘80, da Truciolo alla Parisi. Il joker perfetto. Una sorta di Bez nostrano. Solo che guardando la sua scintillante ebetitudine (non) capisco che rispetto a Bez dentro ha tutto un mondo. Nel primo album Repetto canta da solo un unico pezzo, Te la tiri, con un’interpretazione di netto più traballante rispetto al subito autorevole Pezzali. Nel secondo “Nord Sud Ovest Est” del ‘93, non una sola canzone.
I due album, realizzati via Cecchetto, sono maturati, scritti e respirati dal talentuoso duo. Sull’innovazione Pop e i meriti linguistici di Pezzali sono state fatte tesi di laurea e si è parlato a lungo. Solo che c’è un pezzo che manca. La coscienza. Quella che inizia a covare, agitata dall’ambizione, dentro Mauro Repetto. Pezzali è vulcanico e il suo talento si espande irrefrenabile nel secondo album. I due fanno in tempo a scrivere la struggente Aeroplano per una ragazza che si chiama Caterina, e si dividono. O meglio, Repetto lascia e va negli Stati Uniti con un sogno folle, fare un film con una modella chiamata Brandi di cui si era innamorato e intitolarlo “Brandi’s smile”. Anni dopo Pezzali interpreterà così l’abbandono del partner: “Finchè scrivevamo canzoni in cantina andava tutto bene. Il problema secondo me iniziò con i concerti dal vivo, durante i quali io cantavo e lui no. Certo, Mauro ballava, ma faticava a trovare una sua dimensione sul palco. Credo che alla lunga sia stato questo non sentirsi a proprio agio in scena il vero problema”. Ma non era una questione di ego. Mauro aveva delle cose da dire. Cose che non riuscirà a raccontare nel film, che non riesce a realizzare, con tutte le porte americane a cui bussa che gli si chiudono davanti, tra le quali quella della Brandi che gli aveva fatto perdere la testa. Ma quel viaggio negli Stati Uniti non era stato inutile. Era stato anche un viaggio verso la fine dell’adolescenza e del suo post, uno sputnik lanciato verso la crisi, fantasmi della maturità tutt’intorno. Repetto prende la chitarra e si mette a nudo. Cecchetto avalla, e ne esce un disco. Scioccante, purissimo. Doloroso. Ridicolo. Di una bellezza che abbaglia. Di una trashitudine che spaventa. Un disco “basso” come nessun altro nella storia della canzone italiana. E “alto” come nessun altro. Senza baricentro. E dove il baricentro affiora, in qual magma psicoticamente funky, toglie il respiro. Registrato nei Power Station Studios newyorchesi, realizzato insieme a Jeffrey M. Alexander e St. Martin Bertrand, con Michele Chieppi alla chitarra acustica (i tre si spartiscono le musiche) e una vocalist eccellente come Francesca Touré, “Zucchero Filato Nero” esce nel 1995 e sarà l’ultimo segnale di vita riconosciuto di Mauro Repetto. Immaginate lo spettro di Syd Barrett che scompagina l’immaginario degli 883, in un suono che unisce hip hop primi ‘90 e sketches acustici lo-fi come un Beck maturo, tagliando il tutto con cascami FM ‘80, e avrete un’idea. Shakerando e allucindando la poetica fumettisca degli 883, in una dialettica fatta di fighe da sogno e fighe di legno, America e Italia, due di picche e televisioni, guasconismo e esistenzialismo, sogno e realtà, psicosi e ordinarietà, in questa cornice dove lo zucchero filato nero del titolo è il pelo femminile, incorniciato in copertina e leit motiv ossessivo del disco, in mezzo a tutto questo prende forma l’imprevisto. Un viaggio dove l’inesauribile fame di f**a fa pendant con il sogno di una famiglia, della donna della vita, di una figlia, di uno straccio di serenità, oscurato dalle nubi dell’instabilità mentale, scortate da una violenta serenità di fondo. My love prende di petto il problema: rime sciorinate con piglio rocky e venature rap, un’effervescente immediatezza melodica, l’interpretazione che declina verso una naturalezza claudicante. La title-track è già persa tra luci, “Stereo di mani su di te”, a metà tra taglio r’n’b americano e un ideale melodico immateriale. Con Baciami qui non si torna più indietro. E’ il singolo, di cui ai tempi c’è anche un video che fatica ad attecchire, con il rap demente di Repetto (che immagina i tragitti di una futura figlia) in un corpo a corpo con un desolato controcanto deepsoul tutto pad malinconici e Francesca Touré manovre. Nervoso rappa in una sorta di versione trash dell’appuntamento battistiano di Dio mio no. E Un grande sì è il momento della verità, quando si capisce che quello a cui si sta assistendo è veramente qualcosa di così abbandonato. “Giorni di ghiaccio e di cacca/mi sembra di essere una candela nel vento/e vorrei solo chiedere al cielo una donna/che ami me” sciorina spiritato l’uomo in una stanza acustica, con un piede che affonda nell’abisso. E l’abisso ha il nome di Brandi’s Smile, quando le emozioni balenano in un antro di morte. Con il titolo del film tanto sognato e mai realizzato, Brandi’s Smile, voce, archi sintetici e un sax sullo sfondo, pulsa maligna e blocca il respiro in gola. Repetto, con la voce precipita in un paradiso, insegue rassegnato, oltre il fallimento del suo film, il film del suo fallimento. Le immagini scorrono al rallentatore, e un clima di inesorabilità si impossessa della scena. E’ un momento di una purezza che fa male, un’oasi di candore brutalmente senza sovrastrutture. Musicalmente, qualcosa come un blues di plastica. “Ora volo giù nella mia nostalgia/Max era l’amico il successo l’allegria/ora atterro qui nella mia follia/Brandi’s smile… sono sempre mio papà e Claudio Cecchetto/che si preoccupano per me che io abbia perso il mio rispetto/mi dicono di non buttare via al vento troppi soldi/e di stare molto attento a New York a chi frequento”.
Come in tutto l’album, la narrazione sfiora il ridicolo ma è un ridicolo sublimato da una sorta di onestà visionaria (la voce di Repetto è allucinata e spiazzante, come fosse sempre in acido), da una bontà strutturale, e da un senso musicale che lascia a bocca aperta. La testa è in fiamme. Voglia di cosce e sigarette, Bugo un bel po’ di anni prima, è uno stomp kamikaze chitarra e voce, lo slancio suicida siglato da ululati, l’inseguimento dell’abbruttimento massimo, della ricompensa masochistica, voglia di sesso a LA: Voglia di cosce e di sigarette/più che mangiare respiro la gente/ste cameriere cerbiatte puttane/del loro volto inquadro le labbra/e dagli specchi il corpo dall’alto…vedo tre x e le scale in discesa/giù coreane che ballano in pista/non è il mio target riesco su in strada/buio e coriandoli di calze e tacchi/donne e stivali che battono il tempo/Michi il mio amico senza vino s’angoscia/come i giocattoli ci piacciono tutte£”. Un climax nevrotico. E’ a questo punto che sfila la seconda parte del disco. Due fumetti funky come Però dai sì, disegnato attorno a Francesca Touré (“Su va da lui Francè”), e Porno a Las Vegas, con la sarabanda di due di picche che si conclude con la Pay TV in hotel. Per poi aprire vertiginosamente ai tre capolavori finali. La sospesa bossa brasiliana di Nual. L’ultima convulsa, psicotica, scena di caccia di Ma mi caghi?, con sporchi hip-hop grooves accelerati, pompa urbana e la voce di Repetto mai così abbandonata e in fuga, inseguita da un sax in febbre free. E la conclusiva Fiori o formiche?, chitarra e voce, un quadretto di una purezza toccante che suona come un testamento perfetto, catturato nel cuore della vita, e sigilla un lavoro immacolato, non solo generazionale, che trascende quello status da culto trash che lo ha accompagnato in questi anni per spiegarsi semplicemente come uno dei più importanti dischi della storia della canzone italiana: “Dio sarà un mattino/boom di luce tra mare e sabbia/Dio è un bambino che sta giocando a Subbuteo/blu blu dammi la forza di guardare giù/blu blu dammi la forza di guardare giù/Dio sarà mia moglie e le sue calze e il suo reggiseno/Dio è una sbronza cazzo oggi se ho lavorato /stelle: fiori o formiche cosa siamo/stelle: fiori o formiche cosa siamo/Dio sarà un anello di mia figlia al suo matrimonio/Dio è quel momento che ho già visto in un’altra vita/blu blu dammi la forza di guardare giù/blu blu dammi la forza di guardare giù/Dio sarà una cena con mio padre e il bene che gli voglio/Dio è il profumo di mia sorella al primo dormo fuori/stelle: fiori o formiche cosa siamo/stelle: fiori o formiche cosa siamo”.
Subito dopo “Brandi’s Smile”, che è un flop totale, sembra che Mauro Repetto si sia trasferito a Parigi, dove è diventato responsabile marketing di Eurodisney. Residente a Mareuil Les Meaux, “vive d’arte e d’amore”: si è sposato con una designer e ha realizzato un cortometraggio intitolato “Point Mort”.
Questa è Storia.

1 commento:

Anonimo ha detto...

bau, ci bau bau, ci bau, ci bau bau